Il carciofo soprattutto nel Lazio gode di un apprezzamento senza pari. Siamo consapevoli che esistono diverse varietà ma il nostro cimarolo o romanesco è il nostro simbolo! “A noi non ce toccate er cimarolo!” così mi ha detto ieri un pittoresco signore al Mercato Ostiense mentre li stava sistemando con cura. Tutti sappiamo che pulire un carciofo non è cosa da poco, bisogna avere “la mano”, l’esperienza perchè il carciofo ha delle foglie molto dure e di difficile masticazione. Personalmente l’ho sempre visto fare da mia madre e col tempo l’ho imparato anche io ma ho affinato questa tecnica andando a scuola di cucina dalla mia chef Necci Bertini che oltre a pulirlo ci ha insegnato a pulirlo benissimo, perchè al “cliente o commensale” non puoi dare in bocca delle cose da dover poi eliminare. Mamma invece da brava massaia lo “capava” bene ma senza andare troppo al cuore perchè sennò si sprecava troppo carciofo, per cui ero abituata a “ciancicare e sputare” ciò che era troppo asciutto. Il gusto che c’era però nel ciancicare e sputare!!!! Si poteva fare solo a casa, ovviamente!
frittata
Frittata alla burina
Il termine “burino”, in dialetto romanesco si riferisce al contadino, colui che viene dalla campagna. Oggi è anche sinonimo di persona rozza, a volte volgare.La frittata alla burina, piatto preparato con i tipici prodotti della campagna romana, lattuga e pecorino, porta alla mente proprio i contadini. Erroneamente si pensava che provenisse da “buro – burini”, cioè burro, venditori di burro. In realtà da una ricerca più attenta salta fuori che deriva dal latino “buris-is”, ovvero il manico dell’aratro in riferimento ai braccianti della Romagna, all’epoca dell’appartenenza al territorio dello Stato Pontificio, ingaggiati come lavoratori stagionali nell’Agro Romano, come riporta Fernando Ravaro nel suo “Dizionario Romanesco” un’opera con oltre 11.000 voci, 18.000 citazioni di autori di ogni tempo, più di 7000 locuzioni e forme tipiche, frutto di un ventennio di studi, osservazioni, ricerche. E quindi mi fido!